L’inverno comincia la sua fredda risalita per far riposare e rigenerare la terra da queste lunghe stagioni…sono momenti ottimali per riflettere e approfondire le radici del nostro tempo…come una grande ruota gli eventi tendono a ripresentarsi con grande attualità. Questo articolo riportato dal volume terzo edito da Polistampa della STORIA DELL’AGRICOLTURA ITALIANA – IL MEDIOEVO E L’ETÀ MODERNA traccia un quadro completo degli avvenimenti succeduti durante la crisi del 1300 che dette vita a nuove opportunità in campo agricolo. Buona lettura.
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In quelle condizioni, il sistema produttivo non poteva reggere a lungo. Gravi sintomi di malessere si avvertirono già nella seconda metà del XIII secolo; nei primi decenni del XIV fu la crisi: raffiche di carestie, determinate da avversità climatiche ma anche dall’estensione delle colture su terreni poco adatti, falcidiarono la popolazione. A metà del Trecento la peste percorse città e campagne infierendo su uomini e donne biologicamente indeboliti, che anche per questo furono facile preda dell’epidemia. Nella seconda metà del secolo la riduzione dei coltivi, abbandonati da una popolazione in declino, si accompagnò al ritorno dei paesaggi incolti e a un nuovo incremento delle attività economiche silvopastorali, ora, però, strettamente controllate dai ceti dominanti: lo sviluppo della pastorizia fu, in questa fase, funzionale soprattutto alla crescita dell’industria della lana e al commercio delle carni sui mercati urbani, mentre non cessarono le limitazioni e i divieti posti nei secoli precedenti all’uso dell’incolto da parte delle comunità rurali. Sul piano dell’economia agraria, la crisi del Trecento fu una buona opportunità per ristrutturare l’assetto delle proprietà e i metodi di gestione. Nei secoli centrali del Medioevo (XI-XIII) il dissolvimento della grande proprietà e la crescente concorrenza tra poteri feudali e cittadini aveva portato a una grande frantumazione delle aziende rurali e delle parcelle coltivate.
A iniziare dal XIV secolo la tendenza si invertì, sia nelle aree a prevalente controllo signorile, sia, soprattutto, in quelle dominate dai ceti borghesi: il capitale urbano cominciò a penetrare massicciamente nelle campagne, operando riaccorpamenti fondiari per costituire nuovi nuclei poderali autosufficienti. È il processo noto come «appoderamento»: la creazione di unità compatte, poderi costituiti mettendo insieme appezzamenti sparsi. Entro queste unità si ripropose, in modi diversi, il modello policolturale che già si era imposto nell’alto Medioevo: abbandonate le tendenze alla monocoltura cerealicola che si erano diffuse fra XII e XIII secolo, il paesaggio riprese un carattere misto, in un’ottica di autosufficienza della singola azienda contadina, che però si apriva al mercato attraverso i prelievi della parte padronale. Perfino la tradizionale separazione fra campi e vigne cominciò a venir meno, con il nuovo modello della «piantata» ossia di un sistema integrato di utilizzazione dello spazio, che prevedeva una vigna a filari larghi, con sostegno vivo (olmi, oppi, salici, alberi da frutto, da cui si ricavavano ulteriori risorse alimentari, fogliame come foraggio e legname per gli usi domestici) e con la semina di cereali fra un filare e l’altro. Questo paesaggio policolturale – che poteva avere diverse varianti come l’alteno piemontese o l’alberata toscana – si diffuse prevalentemente nel Centro-Nord della penisola, a iniziare dal XIII-XIV secolo (arbores quibus vites apponuntur sono ricordati già da Bonvesin da la Riva per le campagne lombarde). Al Sud permaneva invece la separazione tra seminativi e vigna (nella modalità cosiddetta ad alberello, cioè senza sostegno).
Al nuovo modello produttivo si accompagnarono la ristrutturazione dell’habitat rurale (con la contrazione degli insediamenti accentrati e la diffusione delle case sparse sui singoli poderi) e la diffusione dei rapporti mezzadrili, soprattutto nelle aree di pianura e di prima collina dell’Italia centro-settentrionale (Umbria, Toscana, Marche, Romagna, Emilia), maggiormente soggette al controllo dei ceti urbani e adatte all’impianto di vaste aziende. I nuovi contratti di mezzadria, diversamente da quelli tradizionali che conferivano alla famiglia contadina un possesso virtualmente perpetuo della terra, erano stipulati a breve termine, per consentire un controllo reale dei processi produttivi da parte del proprietario. Inoltre egli interveniva più direttamente nella gestione agricola, dettava norme precise circa i tempi e i modi di coltivazione, forniva egli stesso, in certi casi, gli attrezzi, gli animali e le sementi. Rispetto alla laconicità dei patti agrari altomedievali, che lasciavano totalmente ai contadini la responsabilità del lavoro della terra, e alla volontà divina la riuscita del raccolto, i contratti tre-quattrocenteschi prevedono una casistica minuziosa, scendendo nel dettaglio su ogni minimo particolare.
Gli statuti cittadini, che esprimono interessi di parte, danno man forte all’interesse dei proprietari: gli obblighi dei rustici sono confermati dalla legge e sanzionati dal pubblico potere. La negligenza o la disattenzione possono costare care: nel 1375, un mercante di Cortona rescinde il contratto che lo legava al mezzadro Guidotto del Bocca adducendo fra le motivazioni il fatto che quest’ultimo «non sarchiò la biada». Tutto ciò presupponeva un nuovo atteggiamento economico, di tipo – per intenderci – imprenditoriale, che aveva di mira l’investimento e il profitto più del controllo sociale degli uomini. Soprattutto nel corso del Trecento cominciano a farsi numerose le attestazioni di un uso più intenso della letamazione, di strumenti aratori più complessi e costosi, di cicli colturali più articolati: nelle campagne pratesi, sulle terre di Francesco di Marco Datini, è attestato il ricorso a cicli quadriennali che escludono il maggese nudo, facendo seguire a un sovescio di fave e di lupini due semine di grano (mescolato a veccia o a segale nella seconda) e, nel quarto anno, una di cereali minori e di legumi. La pratica del sovescio è talora presentata come alternativa alla letamazione: un contratto viterbese del 1340 prevede che il locatore fornisca medietatem stabii vel lupinorum quod erit necesse – la metà dello stallatico, o dei lupini da interrare. Sono interventi che rivelano uno studio accurato, ora anche da parte dei proprietari, delle possibilità produttive dei terreni. Non è dunque un caso che proprio a iniziare dalla seconda metà del Trecento le rese unitarie comincino a crescere in maniera veramente sensibile – anche se a vantaggio prevalente dei profitti padronali. La soglia del 4 per uno e anche quella del 5 vennero superate sempre più di frequente; il canone della metà dei prodotti, che i mezzadri pagavano al proprietario (prima, le quote non erano superiori al terzo o al quarto), convertiva a suo favore l’aumento produttivo. La stessa riduzione dei coltivi giocò a favore dell’aumento di produttività, concentrando il lavoro solo sulle terre migliori e abbandonando le fasce marginali messe a coltura nel corso del XIII secolo. Non sempre le indicazioni padronali erano condivise dai contadini: la tecnologia non è mai stata un luogo neutro. Poteva, ad esempio, verificarsi un conflitto fra la propensione dei mezzadri a sfruttare eccessivamente il terreno negli ultimi anni di permanenza sul podere e l’interesse dei proprietari a una gestione più equilibrata degli avvicendamenti. Conflitto legato alla breve durata dei contratti, che non garantiva un legame solido dei coltivatori con la terra. Frattanto l’orizzonte dei contadini andava chiudendosi: i confini del podere diventavano tendenzialmente invalicabili. Il mezzadro del Tre-Quattrocento (questa nuova figura sociale destinata a caratterizzare gran parte dell’età moderna) non proietta più all’esterno dell’azienda la propria attività lavorativa, ma è obbligato – per contratto – a concentrarla al suo interno. Quel po’ di attività pastorale che vorrà affiancare al lavoro agricolo dovrà praticarla prevalentemente in forma stabulare (solo alcune comunità della montagna continueranno a usare i boschi e i pascoli comuni). La crisi fu dunque l’occasione per un generale riordino delle campagne e dei sistemi di coltura, attraverso un più forte controllo della manodopera rurale.
Una maggiore «razionalità» (dal punto di vista del padrone) consentì lo sviluppo dell’economia agraria – non necessariamente delle condizioni di vita dei contadini – che compì allora un salto qualitativo come non aveva mai conosciuto nei secoli precedenti. Una «rivoluzione agraria» è ancora di là da venire (bisognerà attendere il XVIII e il XIX secolo per vedere radicalmente mutare i sistemi di coltivazione, di avvicendamento, di concimazione dei terreni) ma sicuramente siamo di fronte a un balzo significativo, non comparabile con le timide – e troppo celebrate – sperimentazioni dei secoli XI e XII. Il riapparire, fra XIV e XVI secolo, di una letteratura agronomica scomparsa in Italia e in tutto l’Occidente europeo da quasi un millennio sta a dimostrare la vivacità di un’attenzione rinnovata, sia pure dietro la spinta dell’interesse padronale. Il fenomeno tuttavia non riguardò l’intera penisola: il dinamismo agrario del tardo Medioevo fu questione pressoché esclusiva del Centro-Nord mezzadrile e dell’area delle cascine lombarde, in cui prese sviluppo un innovativo sistema irriguo che metteva a frutto la straordinaria ricchezza di acqua del sottosuolo. A iniziare dal Quattrocento si diffuse nelle campagne padane (in Lombardia su sollecitazione degli Sforza, come pure nel Veronese e nel Ferrarese) una nuova coltura destinata a larga fortuna, il riso. In queste parti d’Italia, cittadini e signori investivano nella terra e nel commercio dei prodotti agricoli. Al Sud ciò accadeva solo sporadicamente, per esempio in Sicilia, dove baroni e imprenditori del Palermitano investivano nella coltivazione della canna e nell’industria dello zucchero (cannamele), o in certe aziende ad arboricoltura specializzata (noccioleti, mandorleti, castagneti) sviluppatesi nei secoli centrali del Medioevo attorno alle città campane. Per il resto, il consolidarsi di una feudalità rurale parassitaria diffuse nel Mezzogiorno d’Italia, su un territorio più libero di uomini dopo la terribile mortalità di metà Trecento, forme di latifondo estensivo in cui le pratiche pastorali si alternavano a una magra cerealicoltura, intesa come sfruttamento passivo del territorio. Con l’incremento della transumanza prese piede in varie regioni, come la Puglia, un sistema «a campi ed erba» nell’ambito del quale più anni di destinazione a pascolo si alternavano a cicli biennali di frumento e maggese. Rispetto agli inizi del Medioevo, la floridezza delle campagne e l’intensità del lavoro agricolo si erano ormai spostate dal Sud al Nord della penisola.
Grazie,
fornite sempre informazioni e spunti di riflessioni molto interessanti.
Buon lavoro!