Un Agricoltore fra i palazzi

22/05/2025

In occasione della giornata mondiale della biodiversità, della conclusione delle mostre mercato e della pioggia odierna, ci si può prendere un attimo per condividere riflessioni e storie maestre. Una fra tutte quella che riguarda la recente scomparsa di Pepe Mujica, la sua storia intensa ha sempre avuto il bene della terra e dei giovani come riferimento per la sua politica e il suo ruolo di Presidente dell’Uruguay.

Prima di andare a palazzo saliva sul trattore preparava il terreno, trapiantava i suoi amati fiori intorno alla sua casetta e tenuta agricola, e durante una riunione importante, dopo aver compiuto il suo dovere come guida del paese si alzava e diceva “Ora devo andare ad aiutare mia moglie a raccogliere le zucche”.

Badava all’essenziale e alla vita Pepe, e quale ruolo migliore se non quello di agricoltore e presidente…due ruoli apparentemente opposti, ma che Pepe sapeva mantenere in stretto equilibrio e poter così rinnovare la sua azione in campo! “Nel bene o nel male appartengo a una generazione che ha cercato di cambiare il mondo….” E farlo conoscendo l’arte di coltivare gli ha permesso sicuramente di lasciare dei semi nei cuori e nelle menti delle persone. Durante la prigionia durata quasi un decennio,fu posto in completo isolamento per la sua visione rivoluzionaria, fra le torture e le privazioni rimase fedele ai suoi campi. Ai libri, grandi assenti di quel periodo di clausura, si sostituì l’incrollabile fiducia di poter trasformare il dolore in qualcos’altro “ Se mai vi dovesse succedere qualcosa, cercate di ricordare che siete forti, che potete ricominciare e che ne vale la pena”.

La sua tenuta agricola alla periferia di Montevideo, capitale del paese, la coltivazione dei fiori, unica sua fonte di reddito (avendo devoluto o rinunciato a tutti i benefici da Presidente), lo mantenne capace di sognare e di mantenersi ben radicato nel cambiamento che riteneva l’urgenza dei tempi. Nel 2020 lasciò l’incarico: “A cosa serve un vecchio albero, se non lascia passare la luce affinchè nuovi semi possano crescere fra le sue foglie?….Fate qualcosa nel mondo in cui vivete, prendete la vita nelle vostre mani e costruite un progetto …è possibile dare il proprio contributo per un mondo migliore”  aggiunse…

 

Ed eccolo al lavoro….

Era un mattino d’inverno a Montevideo, e una troupe televisiva argentina si presentò alla sua fattoria per un’intervista. Trovarono Mujica in tuta da lavoro, con un cappello di pagia sbrecciato e gli stivali sporchi di fango, intento a trapiantare crisantemi in una serra improvvisata. Mentre parlava di politica internazionale, le sue mani non smettevano di lavorare la terra. A un certo punto, interruppe il giornalista: “Aspetta, devo innaffiare queste piantine prima che il sole le secchi”.

La telecamera lo seguì mentre trasportava annaffiatoi, e lui commentò ridendo: “Vedi? Questa è la mia palestra. I politici dovrebbero zappare invece di andare in clinica per il mal di schiena”.

Qualche anno dopo durante un vertice internazionale, un diplomatico europeo gli chiese come conciliasse il ruolo di presidente con quello di agricoltore. Mujica rispose: “Sa qual è il mio segreto? Ogni volta che firmo una legge, penso a come influenzerà quel campo laggiù”, indicando dalla finestra del palazzo presidenziale la direzione della sua casa. Poi aggiunse: “I fiori mi ricordano che tutto, anche il potere, ha una stagione. E che prima o poi appassisce”.

Ma l’aneddoto più emblematico è legato ai suoi garofani. Ogni settimana, Mujica e sua moglie Lucía Topolansky caricavano il furgoncino anni ’80 con i fiori coltivati nella loro terra e li vendevano al mercato di Ruta 5. Un giorno, un turista tedesco, ignaro di chi fosse, gli chiese: “Ma quanto guadagna con questi fiori?”. Lui, strizzando l’occhio, rispose: “Abbastanza per comprarmi l’essenziale. Il resto è aria”.

Quel gesto – vendere fiori per scelta, non per bisogno – era per lui un atto politico: “La terra ti dà quello che le chiedi, ma devi trattarla con rispetto. Se coltivi solo denaro, raccoglierai solitudine”, disse una volta a un gruppo di studenti in visita. “Io coltivo fiori perché sono fragili, come la democrazia. Se non li curi ogni giorno, muoiono”.

 

Altri spunti

Ecco alcune storie e aneddoti da cui prendere spunto legati all’agricoltura, alla biodiversità e alla resilienza umana, un orizzonte di esperienze e racconti per celebrare la Giornata Mondiale della Biodiversità:

  1. La foresta che rinacque dalle mani delle donne: il movimento Green Belt  

 

Negli anni ’70, in Kenya, la biologa Wangari Maathai fondò il Green Belt Movement, un progetto che univa ecologia e emancipazione femminile. Migliaia di donne piantarono oltre 50 milioni di alberi per combattere la deforestazione, ripristinare i terreni erosi e garantire cibo alle comunità. Maathai, premio Nobel per la Pace nel 2004, ripeteva: “Un albero è un simbolo di speranza, radicato nella terra ma proteso verso il cielo”. La sua eredità dimostra come la biodiversità non sia solo una questione ambientale, ma un atto di giustizia sociale.

  1. Il riso che sfidò il cemento: la lotta dei contadini di Bali  

 

A Bali, i contadini hanno custodito per secoli il Subak, un sistema di irrigazione tradizionale che distribuisce l’acqua equamente tra le risaie terrazzate, mantenendo ecosistemi unici. Negli anni ’90, il governo propose di sostituire i campi con resort turistici. I contadini si ribellarono, difendendo non solo il loro sostentamento ma anche la biodiversità delle risaie, habitat di uccelli, pesci e piante rare. Oggi il Subak è patrimonio UNESCO, e le loro risaie sono un esempio di come l’agricoltura tradizionale possa preservare la vita in tutte le sue forme.

  1. Il giardino segreto di Chico Mendes  

 

Chico Mendes, sindacalista brasiliano e difensore della foresta amazzonica, non lottava solo per gli alberi, ma per un’idea rivoluzionaria: “La foresta vale più in piedi che tagliata”. Oltre a organizzare i “seringueros” (raccoglitori di caucciù) contro il disboscamento, creò orti comunitari dove coltivava piante medicinali e alimentari autoctone, insegnando alle comunità a vivere in simbiosi con la foresta. Ucciso nel 1988, il suo sogno sopravvive nei “giardini forestali”, dove agricoltura e biodiversità si fondono.

  1. La rivoluzione dei semi perduti: l’orto di un nonno in Sicilia  

 

Un aneddoto personale, raccolto in un villaggio siciliano: un anziano contadino, nonno Giuseppe, custodiva in un vecchio barattolo semi di pomodoro “a costoluto”, varietà antica scomparsa dai mercati. Ogni anno li piantava nel suo orto, dicendo: “I semi sono come le storie: se non le racconti, muoiono”. Oggi quei pomodori, grazie a un progetto di slow food, sono tornati sulle tavole locali, simbolo di resistenza agroecologica. Un gesto piccolo, ma che ricorda: la biodiversità inizia da un seme e da una scelta.

  1. Il “campo della speranza” di Fukushima 

 

Dopo il disastro nucleare del 2011, molti terreni a Fukushima furono abbandonati. Ma il contadino Masaharu Okano rifiutò di arrendersi. Iniziò a coltivare girasoli e senape, piante note per assorbire le radiazioni dal suolo. Il suo campo divenne un esperimento di bonifica naturale, attirando scienziati e volontari. Okano diceva: “La terra non è nostra nemica, anche quando ci ferisce. Sta a noi imparare a guarirla”. Oggi, tra quei fiori, api e insetti stanno lentamente tornando.

  1. La “milpa” maya: dove il mais insegna la convivenza  

 

Nello Yucatán, i Maya praticano da millenni la milpa, un sistema agricolo che mescola mais, fagioli, zucche e peperoncini. Ogni pianta sostiene l’altra: il mais fa da tutore ai fagioli, che fissano l’azoto nel terreno; le zucche coprono il suolo, trattenendo l’umidità. Questo metodo, basato sulla biodiversità, sfida l’agricoltura industriale e insegna una lezione: “La terra non si domina, si ascolta”.

 Per concludere:  

Come Mujica, queste storie parlano di radici, di semi piantati con ostinazione e di un’idea semplice ma rivoluzionaria: prendersi cura della terra non è un lavoro, è un atto d’amore politico. Per la Giornata della Biodiversità, potremmo ricordare che ogni campo, ogni orto urbano, ogni albero piantato è un tassello di un mosaico più grande.

Con solo 1000 miliardi di alberi ben piantati nelle zone morte o inutilizzate intorno alle periferie delle grandi città potremmo arginare lo squilibrio climatico, bilanciare il conto carbonico  e prendere un po’ di tempo per studiare nuove strategie. Un rimedio rapido e a basso costo la grande tecnologia con cui si può ottenere tutto questo si chiamano PIANTE..Come diceva lo stesso Pepe: “Non serve essere un eroe: basta essere coerenti. E avere le mani sporche di terra, ogni tanto”.

 

L’ultima lettera

 

IO, PEPE MUJICA, vi racconto.

Sono stato guerrigliero tupamaro, agricoltore e politico. Ma ora sono stanco.

Senza smettere di essere ciò che sono stato, soprattutto, guerriero.

Ma ora sto morendo e pure un guerriero ha diritto al suo riposo, lo impone il tumore che mi sovrasta.

Tutte le strade della mia terra portano al mio cuore e so distinguere ciò che è passeggero da ciò che è definitivo.

Sono stato io ad aver scelto questa strada e non mi lagno dall’essere arrivato qui, a 89 anni.

Ora ho bisogno di silenzio. Il silenzio è la fonte dei venti, che portano via l’eco della vita, le pugnalate ostili, i denti, le spille, le bare, gli strappi delle migliaia di brividi, i turbinii di pianti e cordogli.

Lasciatemi nel silenzio, all’ombra dei miei fichi e dei miei meli, della lingua che resiste alle parole che feriscono a tradimento, delle sponde che baciano i tramonti, leccati dalle onde.

Ridatemi il silenzio, poiché voglio curare la ferita, che mi lascio nell’anima, il dolore delle foreste devastate, dei boschi di cemento dove crescono la povertà indomabile, la giustizia non realizzata, le libertà infrante.

Ridatemi il silenzio, poiché voglio ritornare ai miei ortaggi, mentre, tranquillamente, in attesa della pace inevitabile, medito sulla bellezza della vita, su quante volte sono caduto e su quante altre mi sono rialzato, sui buoni amici che mi accompagnarono e hanno persino ballato insieme a me. Ridatemi la pace e non chiedetemi più parole.

Ho bisogno del miracolo delle labbra chiuse, delle bocche mute, delle ombre tiepide, dei battiti assenti.

Guerriero sono e continuerò a lottare, senza tregua, mai sconfitto.

La vita è sempre avvenire. La vita mi perseguita, pur se sto morendo.

Quanta vita c’è nella morte! Ma quanta di più c’è nella vita!

Hasta Siempre, comandante Facundo! (Rodrigo Rivas, da Pressenza

 

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