Lo scorso luglio qualcuno mi ha raccontato una storia affascinante e sorprendente. È la storia di un popolo antico, di una cittadella, di un assedio e di tesori sepolti, tesori che sono stati riportati alla luce di recente, dopo oltre 2000 anni. La cittadella è quella di Masada, nella Giudea sud-orientale, odierno Israele, dove sono stati rinvenuti i resti ancora intatti di provviste distrutte sul finire di un lungo assedio, prima che gli assediati, i Sicari, piuttosto che finire schiavi dei Romani, mettessero in atto uno dei più grandi suicidi collettivi della storia.
Tra questi resti, alcuni datteri sono riusciti a resistere in un ottimo stato di conservazione al lungo scorrere del tempo, interrati per bene dal crollo del magazzino, protetti dall’umidità e dalla luce, tanto da avere ancora della polpa attaccata al seme. Dopo il ritrovamento, i semi se ne sono stati altri 40 anni nuovamente “sepolti”, stavolta nel magazzino di un museo. Fino a che due ricercatrici curiose, un’esperta di medicine naturali e una di agricoltura, hanno avuto la folle idea di provare a farli germogliare.
Ne hanno piantati tre. Uno, incredibilmente, ha risposto alla chiamata, come se gli anni fossero divenuti improvvisamente ore. Quel seme ora è un albero grande e forte, in perfetta salute. Non so se vi state rendendo conto: 2000 anni di dormienza; una scintilla di vita ha continuato ad esistere in quel piccolo seme per tutto questo lungo, interminabile, tempo.
Il dattero, ahinoi, è pianta dioica, il che vuol dire che porta fiori maschili e femminili su esemplari diversi. E il portentoso albero (non si può avere tutto!) è un maschio, in attesa ora di una femmina altrettanto attempata che possa fruttificare, per poter riportare in vita i leggendari datteri della Giudea, scomparsi da secoli dalle terre d’origine, che si dice avessero non solo un gusto eccezionale ma anche ottime proprietà medicinali; ma questo è un altro capitolo, ancora tutto da scrivere.
È stato Thor Hanson a raccontarmi questa storia eccezionale, contenuta nel suo libro “Semi”, una delle mie più belle letture della passata estate. L’ho poi ritrovata di recente anche nell’ultimo libro di Stefano Mancuso, “L’incredibile viaggio delle piante”, inaspettato e graditissimo regalo di una mia vicina di casa. Non sapevo neppure che uno dei miei autori preferiti avesse sortito un nuovo libro, ed eccolo là, infiocchettato e pronto per coccolarmi nella quieta e pigra lentezza che accompagna la fine dell’anno vecchio e l’inizio del nuovo. Non potevo desiderare compagno migliore.
Che un seme contenga un potenziale e una forza inimmaginabili lo sapevo già, ma leggere di più della loro biologia, delle loro strategie di propagazione, delle loro spinte evolutive, viaggi e misteri mi ha portata più lontano, a percepire ancora più profondamente la meraviglia rappresentata da questi minuscoli condensati di vita, e dalle piante in generale. Se i casi della storia sono in grado di riportare intatti fino a noi i semi di 2000 anni fa (e di recente sono stati ritrovati, in una tana di scoiattolo nel permafrost in Russia, semi di 39.000 anni fa che, seppure non riescono a germogliare, mostrano ancora tessuti vitali che reagiscono alle stimolazioni), il lavoro di conservazione, scambio e propagazione di questi umili e semplici tesori è perpetrato non solo dal caso, ma anche dal desiderio, e certamente dalla necessità. La necessità è quella che ha spinto alla costruzione delle più grandi banche di semi mondiali, come la Svalbard Global Seed Vault in Norvegia, sotto la minaccia dei cambiamenti climatici e delle problematiche connesse all’antropocene, l’epoca che noi umani stiamo profondamente influenzando, per lo più in peggio. Il desiderio è quello che spinge milioni di persone, primavera dopo primavera, a riprodurre piante antiche nei loro orti e giardini, facendosi promotori della loro evoluzione e conservazione. Un misto dei due è quello che porta alla nascita di progetti come quello di Seed Savers, che non si limita a conservare i semi in un caveau, ma li mantiene vivi, piantandoli continuamente grazie a migliaia di associati nel mondo, da oltre 40 anni.
Questa storia la raccontano e la incarnano anche Sofia e Paolo, tramite l’associazione Natura Maestra e il progetto Piante Innovative. Vi ho già parlato di loro tempo fa, quando sono stata a trovarli nei loro campi a Colle Val d’Elsa per la raccolta della canapa, quando ancora la cannabis light non era nei pensieri di nessuno. Ho lungamente coltivato l’idea e il progetto di passare a trovarli a Palaia, nel loro vivaio pieno di piante strane e sorprendenti, utili e deliziose, ma finora non ci sono riuscita; è che vorrei andarci quando le fioriture sono al massimo, ma a quel punto ho troppo da fare pure io e faccio sempre fatica a organizzarmi. Ci incastreremo, prima o poi. Ho incontrato però Paolo quest’autunno alla festa del Bio-distretto di San Gimignano, tra i banchi del bel mercato contadino. Era in quello stesso luogo che avevo, per caso, durante un lavoro ad un catering, ritrovato Sofia qualche anno fa, ricordandomi di averla già conosciuta ad un corso di distillazione di oli essenziali. Stavolta Paolo era solo, con le sue piantine in vaso, la sua sfilza di bustine di semi, frutti e fiori strani appesi qua e là e i libri autoprodotti insieme a Sofia, con le schede delle loro piante e approfondimenti vari su botanica, suolo, agricoltura rigenerativa e naturale, che ho finalmente comprato e portato a casa, in attesa anche del terzo volume e della storia a fumetti che stanno ancora disegnando.
Incurante del mio pollice nero, ovviamente, non ho saputo resistere alle giovani piantine in bella mostra e mi sono portata a casa pure una salvia bianca (nonostante ne abbia già fatta morire una comprata sempre da loro a Murabilia, a Lucca, qualche anno fa) e un Buon Enrico, spinacio selvatico di montagna, che non se la sta passando molto bene, nonostante la scorza dura, con le gelate di questi giorni. Nella sua scheda si dice che sia “una pianta molto rustica, che tollera anche situazioni di notevole trascuratezza”, ma chissà, forse io esagero. Sono pessima, lo so.
Non ho resistito neppure alle bustine di semi, in particolare all’okra, che dà fiori meravigliosi e frutti che mi incuriosiscono, e al mitico loto, che non pianterò mai ma che so a chi donare.
E Paolo, da parte sua, non ha resistito a regalarmi qualcosa, in particolare un bell’esemplare di zucca cedrina, da scegliere tra quelle che aveva portato con sé. “La vuoi una zucca?!” Mi ha detto prima che andassi via, raccontandomi che una volta era molto coltivata qui in Toscana, che ora invece è rara e che si utilizza per farne marmellate e mostarde. Mi ha fatto davvero piacere, chevvelodicoaffare, una zucca strana e mai sentita prima da cucinare per la prima volta, ma ho pure un attimo spalancato gli occhi preoccupata dal ritorno alla macchina, che ero già carica di ogni bendiddio comprato al mercato e avevo pure Urano al guinzaglio. Ho scelto, giocoforza, la più piccina, ma la lunga strada strada verso il parcheggio è stata comunque un filo complicata :).
Più che una zucca, questo strano frutto è un cocomero (Citrullus lanatus, ma non riesco a reperire la sottospecie), che sempre una cucurbitacea è. C’è chi lo chiama “cocomera”, al femminile, chissà perché. Gli ho fatto delle foto quando l’ho aperto ma erano orrende, quindi vi rimando alla scheda sul sito di Piante Innovative, dove trovate anche qualche notizia in più e suggerimenti di coltivazione. Da mangiare crudo non è eccezionale, niente a che vedere col classico cocomero, ha una consistenza un po’ così ed è abbastanza insipido, sa un po’ di cetriolo ma non è esaltante. Si può comunque mettere a cubetti in insalata insieme ad altre verdure. È da sempre utilizzato in conserva, e da quello che leggo in rete in molti oggi ricollegano quel sapore alla propria infanzia, un sapore andato poi perduto nel mare dell’omologazione. Un gusto delicato e leggermente agrumato, come suggerisce il suo nome. Ci si fanno conserve sia classicamente dolci che insaporite con un po’ di senape, per renderle più adatte ad accompagnare piatti salati. Giacché la piccina non era poi così piccina, ma mi ha regalato ben duechiliemmezzo di polpa, ho provato a fare entrambe le versioni.
Mi ha aspettato a lungo, la cedrina, un paio di mesi per la precisione, sul piano cucina, illuminata dal primo sole del mattino, ma per fortuna è conosciuta anche per la sua serbevolezza, che può arrivare ben oltre. Finalmente lo scorso sabato l’ho attaccata, constatando che sì, la scorza è dura come ho letto in giro e che, wow, quanti semi ci sono qua dentro! Volendoli conservare tutti, che non avevo alcuna intenzione di gettarli via, li ho estratti uno ad uno dalla polpa, mentre la tagliavo. Ci ho messo più di un’ora e mezza. Se non si ha intenzione di conservarli, si potrebbe forse anche cuocere la polpa coi semi e poi passarla con un passaverdure, ma non ho provato. Certo non sono proprio dei semini, sono grandi più o meno come dei classici semi di zucca decorticati, ma contrariamente ai semi della zucca non sono condensati al centro del frutto, ma sparsi O-V-U-Q-U-E come nel cocomero. Sob. Se decideste di fare così sappiate comunque che su 2240 grammi di polpa c’erano 160 grammi di semi; in caso regolatevi per dosare lo zucchero.
I semi li ho tenuti. Hanno riempito due vassoi dell’essiccatore, li sto facendo asciugare all’aria. In un solo frutto è racchiusa una straordinaria abbondanza di vita potenziale, e la zucca cedrina non è neppure la più prolifica tra le piante. Li ho tenuti non tanto per me, ma per chi tra di voi ne volesse: se vi va piacere riceverne una bustina, che magari avete voglia di piantarla nell’orto, ve la ricordate dalla vostra infanzia, siete curiosi o appassionati di orticole rare, scrivetemi a info@granosalis.org che ve li spedisco, fino a che ne ho.
Quando li avrò finiti li troverete comunque da Sofia e Paolo, nelle fiere e mercati in cui sono spesso presenti (seguiteli su facebook, per aggiornamenti, o sul loro sito), nel loro vivaio a Palaia (scrivetegli se volete passare a trovarli) o tramite l’e-shop.
A proposito di piante antiche da preservare, volevo segnalarvi un’iniziativa della Fondazione Archeologia Arborea, che se mi leggete da un po’ ricorderete senz’altro. Ne ho scritto qui, raccontando le mie prime due visite, e poi ancora qui, e in parte qui. La Fondazione ha attivato da qualche mese un crowdfunding, per sostenere la costruzione di un impianto di irrigazione per il frutteto, che ne ha sempre più bisogno per fronteggiare i cambiamenti climatici in atto anche lassù, a San Lorenzo di Lerchi, vicino Città di Castello (PG). Potete contribuire qui, anche con un piccola donazione (si va dai 10 ai 100 euro), ogni contributo è, come sempre, importante. “40 anni di ricerche, 130 varietà in estinzione, 580 piante da frutto rarissime, 1 patrimonio biologico inestimabile”, questi i numeri riportati sulla pagina dedicata al crowdfunding, quelli che mi spingono a supportare e divulgare questo progetto dal momento che l’ho incontrato. Se andate a leggere gli articoli che vi ho linkato potreste innamorarvene anche voi :).
Per finire: inutile dirvi quanto vi consigli i libri citati :). Per completezza li riporto qui, insieme anche alla lista degli altri libri di Mancuso (di Thor Hanson non ne ho letti altri), che se amate il genere apprezzerete moltissimo.
Semi – Thor Hanson – Il Saggiatore, 2017: Ricco di informazioni e storie interessanti e al contempo ben scritto, scorrevole, piacevolissimo.
Verde brillante – Stefano Mancuso, Alessandra Viola – Giunti, 2013: Il libro che ha introdotto al grande pubblico la neurobiologia vegetale, termine che ha fatto inorridire per lungo tempo la comunità scientifica, presupponendo una qualche forma di intelligenza nelle piante. Che però esiste, e questo libro ne dà più di una prova.
Uomini che amano le piante – Stefano Mancuso – Giunti, 2014 – Storie di naturalisti, scienziati, esploratori e ricercatori appassionati che hanno lasciato un segno nella storia della botanica.
Plant revolution – Stefano Mancuso – Giunti, 2017: Sui modi incredibili in cui le piante possono essere d’ispirazione per le tecnologie del futuro, come lo sono state per le passate e le presenti. Perché fondamentalmente sono delle opere ingegneristiche eccezionali create dalla natura!
L’incredibile viaggio delle piante – Stefano Mancuso – Laterza, 2018 – Di questo vi ho già parlato nel post :). Il suo libro più ben scritto, a mio parere. Ma Verde brillante saprà sorprendervi ancora di più.
Piante edibili, piante incredibili…piante innovative (vol. 1 e 2) – Sofia Cerrano, Paolo Gullino – Natura Maestra
Di Mancuso ho letto anche Biodiversi, scritto in forma di dialogo con Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, ma non lo consiglio, non mi è piaciuto granché.
E passiamo alla ricetta: non conoscendo il frutto, ho aggiunto più zucchero di quanto sia abituata ad aggiungere, ne ho usati 200 grammi per chilo. Mi pare quasi troppo dolce, all’assaggio finale quindi forse potreste anche ridurre. Immancabile il succo di limone, non conoscendo il grado di acidità della zucca (nel dubbio lo metto sempre, in ogni caso).
Ho optato per una cottura lunga, che ha permesso ai pezzi più duri di sfaldarsi per bene, preceduta da un’ancor più lunga macerazione, di quasi 24 ore. Non ho aggiunto addensanti, lasciando la composta abbastanza morbida. Se preferite accorciare i tempi di cottura, usate l’agar-agar in polvere, aggiunto a fine cottura precedentemente sciolto in poca acqua nelle dosi di un cucchiaino ogni 500 grammi di frutta.
A proposito di libri, se vi piace preparare marmellate, sciroppi e tanto altro in casa, già che ci siamo ricordatevi del mio “Le Conserve di Frutta”, pieno di ricette e suggerimenti pratici.
// Composta o mostarda di zucca cedrina //
°° Ingredienti °°
- 2,5 chili di zucca cedrina (peso della polpa al netto di buccia e semi)
- 500 grammi di zucchero di canna chiaro (o integrale)
- il succo di 2 limoni
- 4 cucchiaini rasi di semi di senape macinati, solo se volete fare la mostarda