PENSARE NEL SEGNO DELLA PIANTA.

LA CONCEZIONE DEL MONDO DEI PALEOAGRICOLTORI

È a cominciare dallo stadio dell’orto semispontaneo attorno agli insediamenti  ancora temporanei del primo Neolitico, non ancora suddiviso in aiuole vere e proprie, che, mediante un rapporto personale tra uomo e pianta è avvenuto il  meraviglioso evento della «creazione» del complesso delle piante domestiche proprie a una data area. È un tipo di relazione che si ripete ancora oggi e che ben conosce chi coltiva con passione in vaso sul balcone o negli orti due, tre, poche piante, e ne segue lo sviluppo» germoglio per germoglio, foglia per foglia, sbocciar di un fiore, aprirsi di un petalo dopo l’altro. Egli conosce esattamente il colore, il sapore, l’odore, la forma di ogni particolare della pianta. È con questo genere di rapporti ripetuti per generazioni di piante e di uomini che è avvenuta quella profonda compenetrazione tra uomo e pianta che Frobenius e Volhard suo discepolo hanno efficacemente sintetizzato nella Frase «pensare nel segno della pianta». In effetti questi due autori focalizzano il fatto che, nell’ambito delle civiltà dei protocoltivatori, l’idea determinante è l’identificazione con la pianta e quindi il «pensare ed operare nel suo segno». In realtà essi hanno sottolineato come nei culti e nei miti di questi popoli si espresse un nuovo atteggiamento di fronte alla pianta e con ciò di fronte al mondo. In tali miti, appare che il coltivatore ha sottomesso la pianta alla propria responsabilità. Fu questo avvenimento che gli diede la possibilità di sentirsi responsabile dell’esistenza e della fertilità della pianta, coltivandola, curandola, e soprattutto selezionandola. Interiormente però questo avvenimento, che deve aver pesato sul coltivatore primitivo con una forza non immaginabile, determinò la sua intera ideologia nei riguardi dell’esistenza del mondo e dell’uomo. La pianta divenne per lui, per così dire, la chiave di spiegazione del mondo, e ciò che essa gli rivelò soprattutto e in primo luogo fu la continuità della vita attraverso la fruttificazione. Come il seme, che pur appare morto, viene sepolto nel terreno e poi germina, generando una pianta rigogliosa e produttiva, così, ne conclude il coltivatore è ovunque e sempre: perché si produca la vita è necessaria la morte.

L’essere umano stesso, per lui , è da identificarsi con la pianta per cui, in certi casi estremi, ma antropologicamente molto significativi, si arrivò a drammatiche degenerazioni: presso alcune popolazioni paleo agricole si uccidevano i vecchi, perché si intendeva raccoglierli come frutti maturi; si mangiavano come bulbi o tuberi i nemici, giustificando il cannibalismo; si faceva la raccolta di teste umane, come si riproducevano bulbi, radici, frutti, derrate nel magazzino. Di qui le tragiche tradizioni, conservate sino ad epoca recente in Amazzonia, della caccia alle teste e della raccolta degli scalpi. È così che sono nati i miti delle origini delle piante coltivate e dell’agricoltura. In essi si nota, oltre alla focalizzazione dell’effetto generatore, creativo, purificatore della morte, del sacrificio, o almeno dello sforzo, della fatica (concezione presumibilmente a fondamento archetipico universale, cfr. la Redenzione, mediante la morte del Cristo) il potenziamento dei valori sessuali e femminili. Essi erano già presenti nel Paleolitico, in quanto connessi con la fecondità dei vegetali , della terra, degli animali e degli esseri umani. Si trattò dello sviluppo della consapevolezza — specifica dell’identità e natura umane e quindi coeva di esse – della dipendenza dell’Io (umano) dal Non  lo (extra umano) che, con l’emergere dell’agricoltura, Si caratterizzò maggiormente in senso femminile e vegetale. Da qui l’incremento del culto della Dea Madre e il moltiplicarsi dei simboli della fecondità: i ciclomorfi (coppelle) incisi sulla roccia. La Gimbutas ha definito i raggruppamenti di ciclomorfi vere e proprie vulvoteche, ma le coppelle simboleggiano altrettanto bene le mammelle, le sorgenti e soprattutto il fuoco (i falò che occhieggiano nella notte), che apparentemente distrugge, ma, dopo la distruzione, fa germinare l’erba tenera e i delicati germogli degli arbusti: alimento appetito dagli uomini come dalla selvaggina, che così si fa più abbondante.

È sempre in questo rapporto intimo uomo-pianta che, già allo stadio pre-neolitico della protezione, si sviluppano anche le conoscenze delle proprietà alimentari, come delle esigenze climatiche, edafiche, fisiologiche, culturali, ecc. delle piante utili locali. È infatti lì che si è operata la prima intensa selezione di piante con determinati caratteri e quindi che si è originato quello squilibrio e labilità genetici propri degli esseri viventi domesticati.  È lì che, nella successione di secoli e millenni, si sono originati i primordi di determinate tecniche, che richiedono appunto dei rapporti personali uomo-pianta, quali la potatura e la scacchiatura dei germogli ascellari, la curvatura e l’incisione dei rami, il diradamento di foglie e frutti, l’innesto (nato dall’osservazione di eventuali innesti spontanei per approssimazione), la concimazione, l’irrigazione, il sommovimento del suolo per renderlo più soffice (dissodamento), più analogo a quello delle aree naturalmente disturbate:  l’habitat originario di molte piante utili. L’uso al riguardo degli strumenti prima impiegati per altri fini,  quali l l’impiego del bastone da scavo dei raccoglitori preagricoli in funzione di vanga o piantatoio, dell’ascia e di altri strumenti da percussione, come zappa, ecc. Nonché le pratiche della semina, del trapianto, della moltiplicazione per talea, margotta, propaggine.  Soprattutto nella moltiplicazione per seme ma anche in quella di tipo vegetativo si è iniziata la così detta selezione massale. Cioè la scelta ai fini della riproduzione dei semi, noccioli, tralci, bulbi, tuberi, rizomi più belli delle piante più vigorose, sane e produttive da seminare 0 piantare. Solo dopo la riscoperta delle leggi di Mendel agli inizi del XX secolo, alla selezione massale si è accompagnata quella su base scientifica. È ovvio che alcuni di questi primordi si sono conservati soltanto parzialmente o sono perdurati solo allo stato latente, in quanto, con il passaggio dall’aiuola libera, in cui le piante utili, spontanee e disseminate o piantate intenzionalmente, crescevano attorno alle abitazioni senza ordine fisso, al campo, si è verificato un impoverimento delle tecniche. Ciò perché il lavoro di coltivazione, prima operazione raffinata di cesello e di dettaglio, alla fine si è effettuato in serie, si è standardizzato in poche forme elementari ed essenziali, come la piantagione e la raccolta, escludendo altre non indispensabili e che solo più tardi vennero recuperate nella coltivazione di campo, nell’ambito di un perfezionamento utilitario delle tecniche coltivatrici.

È importante tener presente che ur processo analogo corrispondente st è verificato anche a proposito dell’allevamento animale. Fecondità vegetale e animale erano coincidenti e fuse tra loro. Ovviamente, nelle culture pastorali, il culto e i miti sull’origine e fecondità degli animali erano focalizzati su questi, sino ad essere esclusivi.

Tratto da: STORIA DELL’AGRICOLTURA ITALIANA, vol I
L’ETÀ ANTICA, PREISTORIA, p 145
a cura di Gaetano Forni e Arnaldo Marcone

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